Il fine della politica

Commento

Il fine della politica, Salvatore Natoli, Bollati Boringhieri

Un libro che richiede attenzione ed un po’ di vocabolario. Il professore ci racconta della solidità del patto tra Dio ed il popolo eletto e della prospettiva della vita migliore alla fine dei tempi e di come questa Eschaton diventi l’attesa del ritorno di Cristo nella fede cristiana. Interessante, per gli ignoranti come me, il percorso d’attesa della Parusia che San Paolo descrive nella 2 Tessalonicesi e di come giustifica il ritardo della stessa con i limiti del katechon. Da lì e dal ritardo della fine dei tempi e della salvezza per i giusti scaturisce la necessità di gestire il “frattanto”, il tempo dato agli uomini da vivere sulla terra. Nasce il potere prima in forma di Chiesa e poi in forma di stato per potenziare e preservare la vita, provvedendo al comune benessere, evitando, nel contempo, che gli uomini s’infliggano reciproco danno. In termini contemporanei “Stato di diritto” e “welfare”. Tra attesa e realizzazione si dispiega un frattanto che riguarda le vicende del popolo: è il tempo della politica.  Un tempo intermedio, «tra il già e non ancora», dove la redenzione differisce radicalmente dalla salvezza: la politica opera ai fini della salvezza, ma sul presente o, tutt’al più, provvede a preparare un futuro migliore; la redenzione eccede invece le possibilità umane perché riscatta tutto il passato e nel contempo abolisce il futuro. Nei secoli il differimento dell’eschaton rafforza chiesa e stato come istituzioni: la Chiesa operando nel mondo ha bisogno di una politica; nel contempo la politica come governo delle cose terrene finalizza e destina l’attesa. Il futuro diviene l’orizzonte dell’operare umano, ove l’uomo si fa mano a mano garante della propria salvezza. Allungata all’infinito la promessa della redenzione la politica estende il suo controllo nelle pieghe della vita anche attraverso i progressi della scienza e l’irrompere delle tecnologie. Nascono le moderne teorie del progresso: anch’esse bisognose di eliminare i freni dello sviluppo attraverso antagonismo e lotta, fino all’idea d’instaurare un bene assoluto che ha finito per legittimare ogni delitto attraverso i totalitarismi novecenteschi. Fallito il tentativo di creare il mondo nuovo sulla terra la politica,  si trasforma in “governo della contingenza”. I centri di potere si sono moltiplicati e nel contempo si è perso il fulcro centrale e di qui la crisi delle forme classiche di rappresentanza. Tuttavia, nella caduta del fine ultimo, gli uomini non cessano di perseguire fini e quello della politica resta invariato: provvedere al bene comune che è poi la ragione che ne garantisce la legittimità ad esistere. L’idea più forte diventa quella di lasciare a coloro che verranno un mondo migliore da com’era quando ci siamo entrati. Meno speranze e più perseveranza, dal momento che la perseveranza è il laboratorio concreto ove sperimentare le vie del possibile.